Catullo carme 109

Il carme 109, formato da tre distici elegiaci e appartenente alla sezione degli epigrammata, risulta significativo per vari spunti di riflessione che ci possono aiutare a interpretare complessivamente la poesia di Catullo. Anzitutto, il testo si apre con un’apostrofe alla donna (chiamata dolcemente tramite la metafora «mea vita», v. 1), non nominata nello specifico, e si concentra sulla sua proposta di un amore gioioso ed eterno. Non ha senso cercare di ipotizzare eventuali rotture e successive riconciliazioni alla base di questa poesia né inserire il carme in un filo ordinato che abbia riscontri biografici: non solo non possediamo alcun elemento esterno per impostare operazioni storicistiche di questo tipo, ma si tratterebbe di un’operazione assurda persino per lo stesso Catullo, che intende queste poesie come saggi artistici della propria abilità raffinata più che come sfoghi dei propri sentimenti.

Nel primo distico va notata l’attenta distribuzione dei termini, segno chiaro di labor limae: non solo l’iperbato colloca nelle posizioni forti i due aggettivi che costituiscono il nome del predicato dell’infinitiva, sigillando la coppia di versi in maniera pregnante, ma il concetto fondamentale – l’amore tra il poeta e la donna – è distribuito al centro di questa unità metrica, con un enjambement (amorem / hunc nostrum, vv. 1-2). Spicca inoltre la centralità della prospettiva soggettiva, evidenziata sia dall’uso dell’aggettivo possessivo mea (e poi di nostrum) sia dal pronome personale mihi a poca distanza: a Catullo interessa la propria dimensione privata, di arte e affetti. Merita attenzione anche il verbo principale proponis, letteralmente «metti davanti», che lascia già intuire come l’affermazione prospettata dalla donna sia, in realtà, un castello in aria, fondato su parole che troppo presto svaniscono (o, come detto nel carme 70, scritte nella rapida aqua).

Nel secondo distico il poeta invoca solennemente gli dei (Di magni, v. 3: apostrofe), chiedendo loro che facciano in modo che le promesse dell’amata siano veritiere e che stia parlando in maniera sincera. Evidentemente, Catullo ha timore che la donna gli stia mentendo, oppure semplicemente, anche recuperando lo stereotipo diffuso della donna volubile e rapida nel disinnamorarsi a vantaggio di nuove fiamme, assume un atteggiamento prudenziale per amplificare la portata del suo desiderio di un amore veramente eterno. L’impressione che ne emerge, tuttavia, resta di poca convinzione e quasi di già rassegnata consapevolezza che si tratti solo di una fugace illusione. Il poeta, con la solita raffinatezza formale, distribuisce in variatio tre sottolineature della necessità di verifica delle parole della donna: prima i due avverbi vere (v. 3) e sincere (v. 4), poi l’espressione ex animo (v. 4), che potremmo far corrispondere a un nostro «dal profondo del cuore». Si noti ancora l’uso di un verbo segnato dal prefisso pro-: promittere significa infatti «mandare avanti», prospettare un futuro che, però, si può solo desiderare o augurare, senza averne certezza.

Il terzo e ultimo distico esprime la conseguenza della auspicata sincerità della donna e la subordinata ut liceat, interpretata in vari modi dai critici, tenderei a considerarla una completiva: «in modo che». La scelta del verbo difettivo licet è estremamente significativa, perché esprime un destino che si subisce, quasi come se non fosse possibile determinarlo effettivamente con le proprie scelte di volontà: occorre quasi un permesso da parte degli dei per poter realizzare il proprio sogno d’amore. L’iperbato tota… vita (v. 5) va a rafforzare ulteriormente l’aspirazione di eternità comunicata dall’aggettivo aeternum (v. 6), che si collega al perpetuum del v. 2 creando una composizione ad anello attorno al tema portante dell’auspicata (ma forse irrealizzabile) eternità dell’amore.

Un discorso specifico meritano le scelte lessicali dell’ultimo verso, in cui Catullo risemantizza in prospettiva privata e sentimentale dei concetti fondamentali della mentalità romana e di quel mos maiorum da cui tante volte ostentatamente dice di volersi allontanare. Anzitutto, come anche nei carmi 76 e 87, il rapporto amoroso viene interpretato come foedus, un «patto» che presuppone la fides (ossia la lealtà) e che chiama in causa i concetti di giuramento e di inviolabilità, connessi anche alla sfera religiosa. Non è quindi una banale iperbole metaforica la connotazione dell’amicitia (qui intesa come relazione amorosa) tramite l’aggettivo sanctus: le parole tra gli amanti hanno sancito (dalla radice del verbo sancio deriva infatti il participio e l’aggettivo) un vincolo, da rispettare benché in realtà sia al di fuori di ogni schema convenzionale nella società del tempo, non trattandosi di una relazione matrimoniale. Il poeta gioca inoltre sull’ambivalenza del termine amicitia (che riprende, in anello e ancora a fine verso, l’amor del v. 1): se, collegandosi all’uso colloquiale di amica nel valore di «amante», può esprimere la relazione sensuale anche “irregolare”, il sostantivo è però anche il legame puro e disinteressato tra persone che fondano sulla propria affinità di carattere, sensibilità o interessi un vincolo forte, spesso – nel contesto romano – con implicazioni anche politiche ed economiche. Se in questa seconda accezione la connotazione di inviolabilità è perfettamente congruente, assume invece, a ben pensarci, un tratto quasi ossimorico se riferita al rapporto tra degli amanti, inevitabilmente precario e volubile. Proprio su questi contrasti, tra precarietà e aspirazione all’eternità, tra immediatezza della passione e formalizzazione più stabile e profonda, si gioca l’efficacia della poesia catulliana, che da queste antitesi trae la sua vitalità.